What is happening just around us?
Written by: Fabiola Fortuna
Are we all web stars?
It’s quite interesting to analyze the profile of YouTubers: people who consciously decide to share pieces of their lives – choosing carefully the way to do it, how many things to say, etc. – with their audience, which is often quite substantial. As exchange for so much effort, for dedicating time and attention towards a YouTube channel and the people who are waiting for a new video, the YouTubers make a profit; no matter the amount of money they manage to get: these people are monetizing their lives, their identities.
Let’s think over it: is sharing pieces of life and experiences with a relatively wide audience, something that many of us do everyday, even though we don’t have to manage a YouTube channel or don’t have scheduled topics to talk about? Then, what is the difference between a YouTuber, or a web star, and an ordinary social media user? Practices and habits are not that different, but, digging in depth of this matter, we’re going to discover that the political and economical implications of it are not the same at all.
Firstly, the difference between those two profiles resides in the level of awareness that the people who generate content have; secondly, it manifests in who is going to gain profit from this activity. In the case of a YouTuber, who is aware of what she/he does, part of the profit goes to her/him; in the other case, when a ‘common user’ generates content, the profit of this activity – the self-representation, the self-storytelling – is in the hands of companies that belong to two categories:
- web 2.0 companies, that get data about users’ habits and relationships, in order to utilize them for commercial purposes;
- companies that produce any kind of goods and services, that buy those data from web 2.0 companies, and invest a lot of money in building marketing strategies as personalized (and intrusive) as possible.
Identities ready to be profiled and goods ready to be sold.
All the techniques that let those companies use this mechanism based on the accumulation of money – and, obviously, control over people – are called digital profiling of the users; it’s purpose is to divide the users following their behavior. They are attempting to reduce to a standard – to a ‘common’ data – something that is not reducible at all: the individual identity of everyone of us. However, we should keep in mind that, despite the fact that our identities are not categorizable, when we decide to self-represent them in the space of social media, they immediately become goods to be sold. Such a product is produced, presented and – unconsciously – sold by us. But, saying ‘sold’ is not really correct, because we don’t receive any amount of money – we’re not web stars, after all – in exchange for what we offer/provide. It would be more appropriate to talk about ‘concession’ of ‘confession’ (as the Ippolita collective point out in their latest book Anime Elettriche, 2016) of what we are, of who we are. Marketing strategies are ‘based on us’ more than ever.
Possibilities of resistance.
We know that we can’t renounce to represent ourselves and we know we can’t renounce to be in the social media environment – or, maybe, we just don’t want to leave it. But: are we sure we want to keep on sustaining and being part of this tendency of the market, without even being aware about what it allows to happen to our identities? If we posed this question to people, the answer would reasonably be ‘no’ for everyone. It’s then desirable that everybody starts to resist and defend her/himself from it, keeping in mind that we always have the possibility to exit from it. Then, we should remember that the attitude to resist is also a way of represent ourselves.
Italian version
Siamo tutte/i web stars?
La figura dei creatori di contenuti su YouTube è piuttosto interessante: persone che decidono coscientemente di condividere parte della loro vita – scegliendo accuratamente come e in che misura farlo – con il proprio pubblico, in certi casi incredibilmente vasto. In cambio di tutto questo sforzo, della dedizione nei confronti del proprio canale e delle persone che aspettano con impazienza un nuovo video, le/gli youtubers ricavano un profitto; consistente o esiguo che sia, poco importa: queste persone monetizzano la loro vita, la loro identità.
Ragionandoci un po’ su: condividere pezzi di vita ed esperienze con un pubblico relativamente esteso, non è forse quello che molte/i di noi fanno quotidianamente pur non gestendo un canale YouTube e non avendo specifici topics di cui occuparsi? Qual è, dunque, la differenza tra uno/a youtuber e un/una comune utente dei media sociali? Le pratiche e le abitudini nel rappresentarsi non sono poi così diverse ma, scavando più in profondità nella questione, scopriamo che le implicazioni politiche ed economiche non sono affatto simili.
La differenza sta, in primo luogo, nel grado di consapevolezza di chi genera contenuti e, in secondo luogo, nell’identità del destinatario del profitto ad essi collegato. Nel caso di uno/a youtuber, consapevole di ciò che fa, una parte del profitto appartiene a lui/lei. Nel caso di chiunque altro/a di noi, il profitto di questa attività – ovvero l’auto-rappresentazione, il racconto di sé – è nelle mani di due categorie di grandi aziende:
- aziende del web 2.0 che ricavano dati sulle abitudini e le relazioni umane di chi genera contenuti, per poi utilizzarli a scopi commerciali;
- aziende che producono ogni tipo di bene o servizio, che acquistano questi dati dalla prima categoria di aziende e investono nell’elaborazione di strategie di marketing il più personalizzate e invasive possibile.
Identità da profilare e merce da vendere
La serie di tecniche attraverso la quale le aziende del web 2.0 mettono in atto questo meccanismo di accumulazione di profitto – e, ovviamente, anche controllo – è la “profilazione digitale” delle/degli utenti, il cui scopo è suddividerle/i in base al loro comportamento; il tentativo è dunque quello di ridurre a standard – a dato comune – qualcosa che non è riducibile né standardizzabile per definizione: l’identità di ogni individuo. Bisogna però tenere a mente che, nonostante la nostra identità sia impossibile da categorizzare, nel momento in cui decidiamo di auto-rappresentarla nello spazio dei media sociali, diventa subito merce. Tale merce viene prodotta, presentata e – inconsapevolmente – venduta da noi stesse/i. Il termine “venduta” risulta però poco corretto, in quanto non riceviamo nessuna somma di denaro – non siamo certo youtubers o web stars – in cambio di quello che forniamo. Sarebbe più opportuno, quindi, parlare di “concessione” o “confessione” (come la definisce il collettivo Ippolita nel suo ultimo libro Anime Elettriche, 2016) di quello che siano, di chi siamo. Le strategie di marketing in ambito 2.0 sono “basate su di noi” più di quanto non lo siano mai state in passato.
Forme di resistenza
Sappiamo di non poter fare a meno di auto-rappresentarci e di non poter fare a meno di stare nell’ambiente dei media sociali – o, forse, semplicemente non vogliamo rinunciarci. Ma siamo davvero certe/i di voler continuare ad alimentare questa tendenza del mercato senza nemmeno avere coscienza di quello che mette in atto, letteralmente, sulla nostra pelle? Ragionevolmente, a questa domanda chiunque risponderebbe “no”. È dunque auspicabile che ognuna/o di noi inizi a resistere a questo meccanismo e ad auto-difendersi da esso, tenendo a mente che, in qualunque momento, è possibile sottrarvisi e che anche l’attitudine a resistere è una forma auto-rappresentazione.