Interview with Geert Lovink for L’Unita by Teresa Numerico

A month after Il Manifesto a second interview by Teresa Numerico (Rome) was published on April 2, 2016. Here is the text, in Italian. Sorry but there is no English original txt of this one. In the intro Teresa explained what we discussed in the days before, during the lecture and the class at Roma3. /geert

La presenza di Geert Lovink a Roma per una settimana all’inizio di Marzo è stata un’occasione per discutere insieme diversi temi caldi della cultura e della politica dentro e fuori la rete. Lovink è un teorico dei nuovi media e un critico di Internet tra i più riconosciuti e seguiti d’Europa. Si pone al centro di un dibattito sulla rete e il digitale non solo accademico. Nell’Institute of Network Cultures, che ha fondato a Amsterdam nel 2004, e di cui è direttore, ha organizzato incontri, progetti e pubblicazioni che mettono insieme non solo studiosi, ma anche attivisti dei media, hacker, artisti, esponenti dei movimenti – insomma tutti i soggetti interessati a un processo di ridemocratizzazione della rete. Lovink segnala il rischio di narcisismo collettivo insito in un abuso della presenza sui social media più diffusi, senza preoccuparsi delle accuse di moralismo che gli sono piovute addosso. Nel suo prossimo libro, pubblicato in Italia da Egea, in uscita ai primi di Maggio, dal titolo L’abisso dei social media, Lovink prosegue il suo infaticabile lavoro di osservatore, critico e sperimentatore di pratiche di liberazione e di organizzazione politica della rete e sulla rete. Il suo interesse per l’azione trasformativa della società lo spinge a interessarsi, oltre che ai movimenti a tutte quelle realtà alternative di progettisti di strumenti che si oppongono agli usi mainstream e cercano di ripensare social network, motori di ricerca, strumenti per la condivisione in chiave non capitalistica. Come costruire un dispositivo per la comunicazione tra le persone che non entri deliberatamente in possesso dei dati personali degli utenti? Come pensare la gratuità dei servizi se non al prezzo di cedere in cambio i propri dati personali? È possibile sviluppare modalità di finanziamento dell’arte digitale?

L’elaborazione di un modello di business per il finanziamento dell’arte digitale non riguarda solo il sostentamento degli artisti, ma rappresenta, per Lovink, un tema assolutamente politico che ci coinvolge tutti. Il suo impegno intellettuale non è disgiunto dalla ricerca di una prassi politica praticabile per l’alternativa al capitalismo neoliberista nel quale siamo immersi. Lovink ribadisce che non si può essere ottimista sullo stato attuale della rete, ma lui non perde la speranza che un’azione politica, sociale e artistica sia possibile per mettere al centro della scena un ripensamento di Internet e una sua riprogettazione nel senso della moltiplicazione delle fonti e della molteplicità di soggetti e opportunità.
È una denuncia coraggiosa e lucida: stiamo arrivando al punto di rottura. Non si parla solo di riorganizzazione dei media o disintermediazione nella società. Lovink analizza il cambio di passo di quello che chiama, con altri, il platform capitalism. Il capitalismo delle piattaforme.

Teresa Numerico: Nel tuo lavoro dividi lo sviluppo della rete in quattro fasi, e identifichi la quarta fase, che comincia dal 2008, come quella del platform capitalism. Ci puoi spiegare che cosa intendi?

Geert Lovink: Il capitalismo delle piattaforme segue il fallimento del 2000-2001 e il cosiddetto Web 2.0, fase nella quale era tutto basato sulla partecipazione e sul contenuto generato dagli utenti (UGC). Erano gli anni nei quali Facebook diventò grande e la rete veniva dominata da un piccolo numero di competitori, compagnie multinazionali, tra cui Facebook, forse la più famosa, fondata nel 2004. Il capitalismo delle piattaforme segna il passaggio successivo alla crisi finanziaria del 2008, quando il numero degli attori sulla rete diminuì ulteriormente. La trasformazione è stata molto strana perché Internet era nata con la promessa di essere una rete decentralizzata, mentre la condizione attuale è completamente opposta alle aspettative: abbiamo un’infrastruttura centralizzata, con molti data center di enormi dimensioni. Per esempio molte università hanno abbandonato il controllo dei propri data center. Chi vorrebbe gestire un server in casa ormai? È un’idea assurda, perché dovresti? Ha tutto a che fare con l’aumento esponenziale della quantità di dati, la loro riorganizzazione industriale.

Nel capitalismo delle piattaforme i social media diventano meno importanti, nel senso che sono solo una piccola parte di un gran numero di settori e infrastrutture toccati dalla riorganizzazione infrastrutturale. Internet non è solo una questione di media. I giornalisti sono interessati a quest’aspetto, ma la rete ha ormai un posto centrale in tante aree della vita di tutti i giorni. Per esempio con il fitness. Si usa per misurare le prestazioni sportive di ognuno, si occupa di assicurazioni, logistica, agricoltura. Tutti sanno che sta invadendo la sanità. Il capitalismo delle piattaforme segnala che siamo di fronte a un progressivo controllo delle infrastrutture generali della società.

T.N.: Quindi se Internet non riguarda solo i mezzi di comunicazione, sta diventando un’infrastruttura sempre meno visibile, sebbene potentissima.

G.L.: È proprio questo il problema del platform capitalism. La rete in un certo senso si ritrae, si nasconde, diventa parte della vita di tutti i giorni, come capita all’elettricità o all’acqua. Non parliamo continuamente della politica dell’elettricità, diamo l’argomento per scontato, perché è parte della nostra infrastruttura. La stessa cosa vale anche per i dati che produciamo. I media, i social media raccolgono solo una piccola parte della grande quantità di informazione che viene raccolta e che ci riguarda.

T.N.: Nella situazione del capitalismo delle piattaforme che ci hai illustrato, credi sia ancora possibile esercitare un’azione politica che possa cambiare le cose? Sappiamo che hai partecipato all’incontro dello scorso 9 febbraio a Berlino del movimento di Yanis Varoufakis, Democracy in Europe Movement 2025 (DIEM25). Cosa è ancora possibile fare?

G.L.: Possiamo fare molte cose, discuterne insieme. Anzi dobbiamo fare qualcosa. Le crisi attuali, quella dei rifugiati, quella finanziaria ci richiedono di agire. Ma il problema è che le piattaforme correnti che conosciamo – in particolare Facebook – non sono i luoghi adatti per cominciare l’azione politica. Forse possono essere adeguati in una fase più avanzata di grande mobilitazione. Ma Facebook è tremendo come strumento di organizzazione per i movimenti al loro stadio iniziale. Sappiamo da molti esempi che non funziona. Abbiamo bisogno di costruire i nostri strumenti e di comprendere che è necessario essere indipendenti. Ci servono media indipendenti che ci aiutino quando mettiamo insieme e organizziamo il movimento.

T.N.: Ci potresti spiegare il concetto di OrgNet (Organized Networks) che hai definito insieme a Ned Rossiter alcuni anni fa, e che forse ci è utile per comprendere meglio che intendi?

G.L.: Le organized networks (reti organizzate) sono una risposta ai social media che hanno annacquato tutte le relazioni. I social media funzionano secondo la logica dei legami deboli, connessioni tra te e un amico di un amico di un amico, che diventano sempre più fragili. Seguono una logica solo commerciale. Noi invece abbiamo bisogno di uno spazio virtuale più piccolo, sicuro, criptato, dove possiamo elaborare il nostro progetto e organizzarci davvero. Molte persone sanno che la difficoltà principale per un’azione politica è trovare lo spazio adatto per cominciare. Ci sono molti mezzi di comunicazione, ma una scarsità di luoghi sicuri, dove possiamo costruire delle piccole unità coese. Elias Canetti le chiama ‘cristalli’ in Massa e Potere, dove sostiene che ogni organizzazione è costruita su un cristallo al centro e solo dopo comincia a crescere e a moltiplicarsi.

T.N.: Nel tuo lavoro hai parlato di mask design come di un’azione politica. Ci puoi illustrare meglio il valore di questo strumento di intervento sociale?

G.L.: Uso mask design (costruzione di maschere) come categoria antropologica, per segnalare la disponibilità di una nuova forma di estetica in una situazione piuttosto disperata e difensiva. Il mask design è una risposta artistica. La domanda in questo caso, come sempre nel carnevale, non è se la maschera presenti qualche verità, perché è sempre un elemento temporaneo. La maschera più arcaica di moda di questi tempi è quella di Guy Fawkes, usata dal gruppo Anonymous, che molte migliaia di persone hanno indossato durante le manifestazioni di protesta. Oltre a questa maschera c’è il lavoro dell’artista americano Zach Blas, che ha progettato al computer una forma molto irregolare, piena di bolle molto strane per confondere i software di riconoscimento facciale di cui sono equipaggiate le tante telecamere presenti negli spazi pubblici.

La maschera in generale è un gioco dell’identità che riguarda il mascherare e lo smascherare. Il mask design rappresenta un gesto politico importante perché mostra quanto le persone siano stufe e insicure dell’attuale stato di sorveglianza in cui ovunque andiamo possiamo essere e siamo geolocalizzati, tracciati e identificati.

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