Alessandro De Vecchi studia design al Politecnico di Milano. Per la sua tesi mi ha posto alcune domande sulla questione professionale, i progetti self-initiated, l’automazione, Instagram e il rischio imprenditoriale.
ADV: La tua formazione nel graphic design guida gran parte del tuo lavoro di ricerca, in quanto settore emblematico nell’industria creativa quando si parla di imprendicariato. In un saggio del 2017 sottolinei come parlare di graphic design come linguaggio ne farebbe emergere la componente ideologica, invece di parlarne in termini soluzionisti, come spesso invece viene fatto. Inoltre, sottolinei come la strada politica possa essere una strada per riaffermare il ruolo intellettuale del designer. Nell’ottica di innescare questa riaffermazione del ruolo intellettuale, credi che la strada politica sia l’unica strada? Ci sono collegamenti con il tema del linguaggio, dato che lo colleghi al tema dell’ideologia?
SL: Innanzitutto andrebbe discusso il valore di un eventuale affermazione o riaffermazione del designer come intellettuale. A distanza di alcuni anni dalla pubblicazione di quel saggio mi rendo conto che l’intellettualizzazione stessa sta al cuore del problema. Con essa intendo la produzione di un’immagine del designer quale detentore di una certa influenza culturale. Non esiste il designer; esistono i designer. Tra di essi i designer-intellettuali sono pochi. Tutti gli altri sono quasi del tutto ininfluenti a livello di discorso pubblico. Ed è proprio qui che si innesta il discorso politico. La politica che auspico è una micropolitica del lavoro, focalizzata su istanze specifiche come il reddito, il tempo di lavoro, la questione abitativa. Ciò è l’esatto opposto dei tentativi perlopiù fallimentari di lobbying professionale, come il tema dell’educazione del pubblico alla cultura progettuale. Per fare politica i designer si devono spogliare della propria veste professionale e disciplinare. Devono porsi non come progettisti ma come lavoratori della conoscenza. Devono allearsi e riconoscersi con mondi a loro estranei piuttosto che cercare di distinguersi da essi.
ADV: Il designer della comunicazione contemporaneo cerca spesso di ottenere i suoi personali successi altrove rispetto alla pratica commissionata da un cliente. Se nel passato i grandi “pezzi” di graphic design erano spesso lavori per grosse aziende, oggi sembrano invece nascere in contesti autoreferenziali verso il design stesso. Come spieghi questo fenomeno? Credi che in qualche modo alimenti un’opposizione tra il design come disciplina e il resto del mondo? Può il designer ridefinire il proprio ruolo smettendo di parlare di design e imboccando invece una strada politica che gli consenta di partecipare a dibattiti al di là della disciplina stessa?
SL: Percepisco due questioni relative al fenomeno dell’autoreferenzialità. La prima ha a che fare con la produzione di identità: le scuole di design non sono più principalmente luoghi di riproduzione professionale quanto piuttosto fucine di formazione identitaria e attitudinale. Il contesto scolastico permette di materializzare i propri interessi culturali e sottoculturali, gli hobby, il proprio essere nerd. È l’occasione per trasformare tutto ciò in un portfolio di progetti. Non c’è nulla di male in questo, però mi pare giusto evidenziare questo sviluppo che definirei adolescenziale. L’adolescenza è per sua natura autoreferenziale e riflessiva: è incentrata più sul sé che sul mondo. La seconda questione, quella della natura del “politico”, deriva direttamente dalla prima. Il politico è una delle varie forme di produzione identitaria che avvengono all’interno delle scuole. In Olanda il politico è un feticcio, un requisito formale, una norma. A proposito di ciò nel 2018 ho parlato di “politica ornamentale”: lo slogan antagonista, l’approccio attivista, i grandi temi e le grandi narrazioni assurgono a decorazioni di una pratica in fondo puramente formale e autonoma, ovvero recisa, essendo i primi spesso svuotati del loro contenuto e astratti dal loro contesto storico e sociale. Spesso – non sempre – il politico nel mondo del design è ridotto all’equivalente della spilletta di Che Guevara sullo zaino Invicta.
ADV: Sono molti gli studi e i report che definiscono i lavori creativi come “salvi” dall’imminente automazione, o al massimo posizionati relativamente in basso nelle classifiche. In realtà fenomeni come Fiverr dimostrano come la differenza tra ciò che è automatizzato e ciò che non lo è sia sempre più confusa e difficile da comprendere. Le piattaforme, gli algoritmi e le interfacce stanno portando il designer della comunicazione ad un destino ben peggiore della semplice sostituzione da parte delle macchine? In che modo, secondo te, tali fenomeni trasformeranno la professione?
SL: Il destino del designer non è diverso dal destino del lavoro in generale: polarizzazione di un mercato duale. Da una parte una piccola minoranza di progettisti lautamente pagati e gratificati da commissioni importanti e di largo impatto (mondo della cultura, del branding e della tecnologia), dall’altra un esercito di esecutori impegnati in catene di lavoretti semi-automatizzati o artigiani-autori che sbarcano il lunario dividendosi tra progetti autonomi di stampo identitario e progetti senza identità, ovvero quelli che non figurano nei portfolio ma magari sono retribuiti meglio dei primi.
ADV: In Entreprecariat dedichi alcune pagine all’analisi di LinkedIn come piattaforma in grado di alimentare la retorica dell’imprenditorialità ed allo stesso tempo influenzare l’intero mondo del lavoro in termini di relazioni, contatti e competitività. Un profilo Instagram ben curato, nell’industria del graphic design, funziona a volte meglio di un sito web personale o di un cv ricco, in quanto i propri progetti, ben presentati, sono incorniciati da elementi dell’interfaccia che ne elevano la qualità (chi ha messo like, chi ti segue, la possibilità di contatto immediato in modo informale) quasi a creare una figura di designer-influencer. Pensi che Instagram abbia cambiato la disciplina del graphic design e il designer stesso, come?
SL: Credo che Instagram abbia avuto una forte influenza, a partire da ciò che tu sottolinei, ovvero il designer reso social media manager del proprio brand. Tuttavia, c’è un altro aspetto che a me sta più a cuore. Instagram (e prima di esso Behance) ha ammazzato il sito personale. Quest’ultimo veniva generalmente progettato e programmato dal designer stesso. Il sito personale non era né un social media né una piattaforma bensì rappresentava una pratica sociale: offriva l’occasione di sperimentare con il medium del web, magari reinventandolo, tracciando attivamente le relazioni con i propri alleati: il sito personale includeva spesso una pagina dedicata agli “amici”. Ora tutta questa cultura artigianale è scomparsa (spero che qualcuno ci scriva una tesi al riguardo), i siti personali non li guarda più nessuno, e il designer della comunicazione attivo su Instagram ha rinunciato a quello che era anche un modo di distinguersi dall’utente generico di questa piattaforma.
ADV: Hai parlato approfonditamente del concetto di rischio in senso imprenditoriale, per cui colui che se lo assume viene elevato spiritualmente rispetto alle persone comuni. L’imprenditore però deve attuare una serie di strategie per cercare di ridurlo al minimo. Anche in ambito creativo infatti il “rischio” nella letteratura viene sempre trattato in ottica di “risk management” e “riduzione del rischio”. Come possibile strada per spezzare le logiche imposte dall’algoritmo e per indagare invece nuovi sentieri, può esistere un rischio incentivato piuttosto che ridotto? Un rischio inteso come atteggiamento da includere nella propria practice e in grado di innescare così processi inattesi. Un rischio inteso come innovazione sociale e politica, come strumento per dare uno strattone sia al singolo progetto di design della comunicazione sia a tutta la disciplina.
SL: Il paradosso sta nel fatto che il rischio si è normalizzato, l’eccezione si è fatta regola. Si rischia strategicamente entro una cornice concettuale che resta inalterata: rischio come investimento e strumento competitivo. Non so rispondere a questa domanda dato che il mio percorso non è stato caratterizzato da grossi rischi. Tocca forse immaginare il processo inatteso di cui parli e tentare di innescarlo tramite reverse engineering. Ciò che non mi aspetto ma mi auspico è la sovversione di un sentimento di disillusione e disincanto, che io ritengo generazionale, di cui mi sono fatto testimone. Come reincantare la propria attività? Come sentirsi meno inadeguati? La disciplina e il contesto professionale non sono in grado di offrire una risposta, anzi contribuiscono inconsciamente a esacerbare questa condizione. Le risposte vanno cercate fuori dalla sfera dell’“identità professionale”. È necessario raggiungere una posizione eccentrica per rivolgere uno sguardo impietoso verso la professione. Forse da questo punto di vista ci si renderà conto che la professione è un idolo ormai privo del suo alone di sacralità.