Le immagini generate con l’ausilio dell’intelligenza artificiale sono doppiamente retrospettive. In primo luogo in senso tecnico, in quanto costituite a partire da un dataset preesistente. In certa misura ciò vale per qualsiasi immagine, tuttavia i dataset sono caratterizzati da una soglia precisa: i materiali raccolti, ad esempio, si possono fermare al 2021. In secondo luogo, queste immagini sintetiche sono retrospettive in senso culturale: osservandole si ha già il presentimento che il trend visivo di oggi sarà obsoleto dopo il weekend. Da ciò derivano tutti i tentativi di collegare, serializzare, commentare, catalogare, musealizzare… insomma giustificare tali immagini. Tramite una canonizzazione fai-da-te si cerca di salvarle dall’abisso imminente.
Jean Baudrillard a proposito di Midjourney (1994): “L’arte diventa iconoclastica. L’iconoclastia moderna non consiste più nel distruggere le immagini, ma nel fabbricare immagini, una profusione di immagini in cui non c’è niente da vedere. Sono, letteralmente, immagini che non lasciano traccia. Prive di conseguenze estetiche, per essere esatti. Ma, dietro ognuna di esse, qualcosa è scomparso. Questo è il loro segreto, se mai ne hanno uno, e questo è il segreto della simulazione. Non solo all’orizzonte della simulazione il mondo reale è scomparso, ma il problema stesso della sua esistenza non ha più senso.”
Per liquidare l’ingenuo affidamento sulla Morte dell’autore è sufficiente precisare che quel saggio fu firmato nel 1967 con nome e cognome.
Lavorare con Midjourney è come imbattersi in un barista di Starbucks troppo intraprendente. “Vorrei un caffè”. E ti porta un Caramel Macchiato. “Ma io non volevo il caramello”. Ti porta allora un Espresso Macchiato. “Sono intollerante al lattosio”. Un po’ spazientito, ti porta un Caffè Americano. “Ma qui c’è troppo caffè”. Ormai visibilmente irritato, ti porta uno Sugar Cookie Almondmilk Latte. “Ma chi te l’ha chiesto?!” “Fanno 14 dollari e 99 centesimi”, e sul bicchiere ti scrive il nome storpiato.
L’attività analoga alla generazione di immagini sintetiche non è la pittura, né la fotografia e nemmeno il fotoritocco, bensì la ricerca di immagini di Google. Non a caso sono pratiche simili: entrambe prevedono l’inserimento di una stringa di testo e qualche parametro. Inoltre un’attività sfocia nell’altra: cos’è l’atto generativo se non un’immensa “image search” probabilistica? E viceversa: è ormai difficile fare una ricerca immagini senza imbattersi in una buona dose di ciarpame sintetico.
Tra gli effetti dell’uso corrente di intelligenze artificiali generative ce n’è uno che si può riassumere così: un’inversione del rapporto figura-didascalia. Ovvero, nel momento della pubblicazione (ed è qui che si dichiara puntualmente l’utilizzo dello strumento), non è il testo a “spiegare” o “raccontare” l’immagine, bensì è l’immagine generata a fare da supporto – di volta in volta – al prompt utilizzato, all’aneddoto casuale o alla tesi sui media. Non a caso sono moltissimi gli accademici che hanno abbracciato l’arte del prompting: il testo è e rimane la loro zona di comfort. L’immagine, invece, svolge un ruolo ancillare. Questo è il motivo per cui le immagini generate con l’IA e pubblicate sui social hanno sempre un po’ il sapore di segnaposto. Anche quando il testo in questione manca, se ne sente l’assenza: cosa avrà digitato l'”ingegnere dei prompt” (detta in italiano, questa formula suona ancora più ridicola) per generare tale figura?
Sostengono che l’idea di autore è “sovrastruttura borghese”, e poi nel loro lavoro, nelle loro idee e nelle loro pose indossano i panni autoriali più consueti e consunti, mentre noi sono anni che adottiamo il punto di vista tattico della produzione diffusa e anonima che foraggia la falsa coscienza di quegli autori che si vergognano di essere tali.
In un suo libro, Riccardo Falcinelli spiega (vado a memoria) che le immagini sono incapaci di rappresentare l’assenza. È impossibile, in altre parole, produrre una figura non convenzionale che sia in grado di dire “l’albero non c’è”. Le attuali intelligenze artificiali generative non fanno altro che estendere questa incapacità: non solo non riescono a indicare l’assenza dell’albero, ma bisogna inoltre fare i salti mortali per far sì che l’albero assente non sia un pino, non sia rigoglioso, non sia dipinto, non sia in primo piano.
È già trita quella formula che oppone l’intelligenza artificiale alla stupidità naturale. Eppure c’è un breve saggio di Ando Gilardi, dedicato appunto alla stupidità fotografica, che inquadra bene la bestialità di quelli (non tutti, ma quasi) che fanno arte con l’intelligenza artificiale: “La fotografia è più grande di noi e non dipende da noi che in minima parte. È spesso capricciosa, a volte addirittura ci odia. Talvolta ho l’impressione che ci prenda per il sedere. Ma questo non capita proprio agli stupidi, sempre persuasi che sono loro a fare le fotografie.”
Ammesso che esista, l’arte ai tempi dell’intelligenza artificiale non è contenuta in nessuna delle opere lambiccate tramite Midjourney, e che come opere si presentano (quadri, illustrazioni, “serie” con tanto di titoli); la si trova bensì nel noviziato di Discord in cui si susseguono senza requie versioni multiple di immagini mediocri, emoji incorniciate da pulsanti flat, notifiche di bot flemmatici e stringhe di testo che ricordano versi di poesia modernista. Zen contro ego, Fluxus contro Duchamp, utente contro autore: il divenire è realtà, l’opera è illusione.
Dato che l’intelligenza artificiale ci batte sulle immagini minuziose e intricate, il prossimo riflesso romantico post-digitale consisterà in un ritorno alla semplicità, all’infantilismo. Rivendicheremo insomma un candore alla Rousseau. Gli strumenti generativi ci promettono di trasformare in capolavori i nostri scarabocchi? Allora faremo di uno scarabocchio un capolavoro. I musei si riforniranno di Art Brut, ci si intenerirà parecchio: il sentimentalismo toccherà vette mai raggiunte prima.
La lotta contro l’intelligenza artificiale è tragica, perché è una lotta già persa in partenza. Quella a favore è invece patetica, perché la vittoria è certa e dunque lotta non è.
Questo nuovo trend in cui si chiede a ChatGPT di esagerare all’infinito incarna la produzione di immagini sintetiche in toto: più intricate, più oniriche, più assurde, più improbabili, più weird. E ancora: più fotorealistiche, più virtuosistiche, più hi-res, più pittoresche, più vintage, più macro, più micro. È qui che si intravede il carattere morboso (pornografico, si sarebbe detto un tempo) del prompting, i cui comandi da dominatrix sono solo all’apparenza input, bensì anch’essi output, come dimostra il dialogo con la macchina pubblicato per intero (voyeurismo). A ognuno la sua perversione.
La stranezza è la chimera di chi fa arte con TTI, e vuole che sia considerata tale. L’artista in questione prova a convincersi e convincere che sta scandagliando i limiti del mezzo, quando in verità il mezzo (leggi: chi lo programma e lo foraggia) conosce i suoi polli, e per questo gli preconfeziona appositamente il “weird”, che non a caso è un parametro di Midjourney, un’opzione, uno stile tra gli altri. L’effetto generale si misura in termini di intensità. Un po’ come è successo con La persistenza della memoria di Dalí, dipinto in origine potentissimo, si comincia prima a provare una crescente indifferenza, fino a quando la reazione non cambia di segno e si tramuta in vero e proprio fastidio. Il quadro appare allora ai nostri occhi come una specie di imitazione senza referente. I servizi TTI (e non solo, basti pensare a Deepdream) portano a un risultato simile: fare del weird un nuovo kitsch.
Dirò la mia sull’intelligenza artificiale a tempo debito, cioè a cose fatte, ovvero quando la singolarità sarà stata finalmente raggiunta e qualunque cosa io dica a quel punto non sarà meno inutile, anzi del tutto inutile e proprio per questo perfettamente consona, di quanto sarebbe dire la stessa cosa adesso.
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