Intervista di Angelica Ceccato: Sapere ombra, lock-in e rivendicazione della gratuità

Angelica Ceccato sta lavorando alla sua tesi per il Master in Estetica dell’Université Paris8. Per questo motivo mi ha posto qualche domanda su Entreprecariat, cultura digitale e creazione artistica contemporanea. Di seguito le mie risposte, in cui non ho potuto fare a meno di includere un paio di riflessioni sull’attuale stato d’eccezione.

Illustration by Studio Frames

Il libro «Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori, nessuno é al sicuro» denuncia la condizione attuale del lavoro, in particolare quello a cui sono costretti gli agenti culturali, laddove uno status come quello del freelancer viene assimilato come una scelta di ‘libertà’, flessibilità ed indipendenza, nonostante sia troppo spesso matrice di forme di sfruttamento. In questo senso l’auto-imprenditoria sarebbe la chiave per un nuovo tipo di precarietà, che sembra sempre più accettata ed assimilata come ‘normale’ sotto le spoglie di una – non troppo sana – competitività. In questo quadro, Internet proporrebbe piattaforme in grado di accelerare questa dinamica, proponendo sistemi che spremono il lavoro cognitivo più che favorirlo ‘spontaneamente’. Esiste un modo di intendere il web come, al contrario, strumento di rivendicazione di una possibile orizzontalità dei saperi o democratizzazione della conoscenza?

Fatico a ragionare in questi termini. Se pensiamo ai gruppi ristretti presenti su piattaforme come Facebook, si possono effettivamente mettere in atto delle forme di governance pseudo-orizzontali e democratiche, dove si ozia e si lavora, si producono saperi e si scambia conoscenza. Di fianco a questo sapere di base – questo intelletto generale – ce n’è un altro, che potremmo definire “sapere ombra”. Quest’ultimo è gestito e posseduto dalle piattaforme. Esso non solo è monetizzabile ma è capace di riconfigurare i comportamenti degli stessi utenti e le loro relazioni. Esistono ambienti virtuali dove un sapere che potremmo chiamare induttivo è accessibile alle comunità di utenti (penso ad esempio a Mastodon). Tuttavia anche qui c’è la possibilità concreta di ulteriori induzioni esterne compiute su dati prodotti orizzontalmente, rese infine nuovamente inaccessibili. Parafrasando Daumal: il chiuso conosce l’aperto, l’aperto non conosce il chiuso.

Nel testo si fa appello alla misura in cui la logica competitiva del lavoro 24/7 provoca una ‘volontaria’ deprivazione delle ore di sonno. In particolare, questa istanza andrebbe ad influire sull’economia dell’attenzione, anch’essa precarizzata dalla presenza di troppi input. D’altro canto, anche Bifo afferma che il sovraccarico dell’informazione, come del troppo lavoro, e la tirannia di un vivere in aggiornamento perpetuo portano ad uno stato di «discronia», ossia la patologia del tempo vissuto eradicata nell’odierna ‘era dell’impotenza’. In particolare per quanto riguarda il lavoro online, é possibile ristabilire un equilibrio nell’attenzione o siamo destinati all’anestesia, discronia, ed anempatia come preannuncia Bifo? É eventualmente possibile riappropriarsi di una temporalità più sostenibile rispetto a quella proposta da uno ‘smart working’ che arriva a sottrarre le necessità biologiche primarie? (penso, tra le tante, all’immagine che accosta il wc al pc)

Questa domanda giunge in un momento in cui lo smart working assurge a mezzo per salvare l’economia e impedire che la macchina dell’impiego si inceppi a causa del lockdown. A me pare che il lockdown stia portando con sé un lock-in a livello di software: le organizzazioni propendono per soluzioni preconfezionate e centralizzate. Il lavoro si sta zoomificando. Prima del Coronavirus, nel mio ambiente di lavoro sopravviveva una certa informalità nei confronti degli strumenti adottati per le mansioni d’ufficio: videoconferenze, appunti, memorandum, chat ecc. Ciascuno poteva proporre e usare lo strumento o il servizio più affine alle sue esigenze tecniche, ai suoi principi etici e alle sue personali idiosincrasie. Lo stato d’eccezione ha messo al bando questa varietà e con essa le facoltà di rifiutare certe funzionalità insidiose. Sono spuntati come funghi gruppi Whatsapp “d’emergenza” attivi a tutte le ore del giorno, frequenti richieste di report per tenersi aggiornati (che in pochi hanno poi il tempo di leggere), video call in cui è possibile monitorare il livello d’attenzione dei partecipanti. Temo che ci siano voluti pochi giorni per creare le condizioni del lavoro remoto dei prossimi anni, e non sembrano certo condizioni favorevoli.

Nel testo si cita spesso il pensiero di Richard Sennett riguardo soprattutto il concetto di flessibilità, o meglio di flexploitation. D’altro canto Sennett, come Kenneth Goldsmith, é uno tra i teorici sostenitori della cultura Open, che si configura nella città aperta, ma anche nell’Open Source digitale, nel libero accesso ed alla co-creazione dei contenuti online. Un lavoratore entreprécaire, può permettersi di essere portavoce di una cultura come quella del ‘libero accesso’?

Free” è stato il mantra degli ultimi vent’anni. Ciascuno di noi ha prodotto e consumato contenuti gratuitamente. Tutto bellissimo, in teoria. In pratica però la polarizzazione dei network attorno ai nodi più collegati ha fatto sì che questi nodi potessero beneficiare più degli altri della ricchezza prodotta dalla rete nella sua interezza. Un artista semisconosciuto produce un’opera e la pubblica discretamente online, questa viene usata come spunto o direttamente scopiazzata da un artista più noto o da un brand. Quest’ultimo ne trae profitto, mentre il primo deve sgomitare persino per vedersi riconosciutà la paternità dell’opera. Se le cose stanno così, dobbiamo diventare strenui difensori del copyright? Nient’affatto, e non solo perché il copyright è un’arma efficace principalmente nelle mani di chi ha tempo e denaro per intentare una causa. La ragione più importante è che i commons sono a tutti gli effetti un bene comune, la cultura si produce collettivamente, insomma, il diritto d’autore è una finzione giuridica. Piuttosto che proteggere le sue opere, l’ entreprécaire deve rivendicarne la gratuità, ovvero la possibilità di contruibuire ai commons contestando l’attuale regime di competitività indotto dalla scarsità diseguale.

Si può affermare che abbracciare l’’inter-dipendenza’ corrisponderebbe ad accettare (e gioire di) una sconfitta, quella dell’eccezionalismo propagandato dalla logica imprenditoriale?

Sì.

La conclusione del tuo libro propone una sorta di breve elogio all’impotenza. In generale, l’impotenza é collegabile ad un impatto negativo nell’economia dell’attenzione, come in quella del piacere, messa in crisi dalle nuove tecnologie di comunicazione – e di lavoro – come affermano Bifo o Yves Citton. In che senso l’impotenza come ascesi e rinuncia al corpo sarebbe una via d’uscita dalla precarietà? Si tratta di un’ennesima affermazione di insufficienza individuale fronte alle possibilità collettive?

L’impotenza è l’opposto dell’ascesi: la cultura imprenditoriale sollecita una condotta ascetica del corpo e della mente. Il mio breve elogio dell’impotenza deriva da una semplice domanda: se persino l’ozio e la noia sono messi a lavoro, esiste un valore (o disvalore, a seconda dei punti di vista) in grado di non essere recuperato dall’imprenditorialità? La risposta è l’impotenza. Per impotenza intendo la sottrazione radicale a ciò che l’imprenditorialità chiama “potenziale”.

Il ‘trionfo dei nerd’ nella cultura imprenditoriale sembra prevedere un’impronta tutta al maschile. Si può affermare che l’entreprecariato nell’era digitale evidenzi le differenze di genere, qualora la cultura digitale sia spesso intrisa di sessismo tanto esplicito quanto tacitamente accettato?

Se la cultura imprenditoriale, come giustamente sostieni, ha un’impronta principalmente maschile (con l’eccezione di figure chiave come Margaret Thatcher), il discorso critico sulla precarietà ha invece una forte matrice femminile e femminista. A fronte dell’attuale emergenza sanitaria, la cultura imprenditoriale ha poco da dire a parte chiedere a gran voce il ripristino delle attività. Al contrario, le teoriche della precarietà hanno saputo anticipare delle questioni che si stanno palesando con drammatica evidenza, come ad esempio la precarietà ontologica della vita e la relazione non esclusiva tra autonomia e dipendenza. In questo periodo la cultura digitale, perlomeno quella in cui sono immerso, mi pare sia più precaria che imprenditoriale e perciò più femminista che maschile.

Nel preciso periodo storico che stiamo vivendo, di preannunciato collasso ambientale, sanitario, e forse politico e militare, molti si affida alla cultura online come baluardo di rinascita ed ispirazione, basti pensare alla quantità di materiale culturale messo a disposizione gratuitamente da musei, riviste ed in generale altre istituzioni culturali. Ora che siamo tutti online, e pertanto nessuno é ancora al sicuro, si può pensare alla costruzione di una rete inedita di cooperazione che esca dagli schemi delle attuali gerarchie di visibilità in linea? O, al contrario, la maggiore disponibilità di materiale culturale non farà che fortificare gli attuali algoritmi di ricerca, favorendo la condivisione di elementi già parte del consumo mainstream (penso a piattaforme dal trend elevato come Netflix o Spotify, contro alternative indipendenti e senz’altro meno inflazionate)?

Ora che siamo tutti online, come dici tu, ciò che mi preoccupa è la questione infrastrutturale. Pare che nelle ultime settimane il traffico sulla rete sia aumentato del 20% e con esso i costi di gestione. Molte iniziative culturali affidano la loro presenza online ai giganti dell’hi-tech. Temo che scopriremo a nostre spese che l’accesso a risorse online non è mai gratuito fino in fondo.

Il ruolo dell’artista contemporaneo sarebbe, in questo quadro, quello di indagare nuove forme di pensiero, criticare (nel suo senso di messa in crisi analitica) ed ironizzare l’attuale gerarchia di produzione della conoscenza. In che modo l’artista, una figura che é essa stessa parte dell’entreprecariato (l’artista é imprenditore, ergo non é al sicuro), può attuare questa pratica metadiscorsiva?

Credo che ci sia una differenza tra ruolo e funzione dell’artista. Il ruolo dell’artista è ciò che tu descrivi: criticare, ironizzare, sovvertire, resistere. La sua funzione è purtroppo un’altra: contendersi lo pseudo-welfare che gli viene offerto sotto forma di grant e residenze; alimentare la macchina culturale di uno stato sancendone l’ampiezza di vedute; fornire un appiglio identitario a chi non sa, non vuole o non può trovare posto altrimenti nel mondo del lavoro.

 

Silvio Lorusso

Silvio Lorusso is a designer witouth qualities, an artst without a gallery and a writer without spell cheker. Get his latest book, entitled What Design Can't Do, here!

 

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