[Articolo pubblicato su Progetto Grafico #35. Il Pdf dell’articolo è scaricabile qui.]
Il lavoro di Fronzoni è spesso accolto con fanatismo, ma c’è chi guarda con sospetto al suo purismo monastico. Tuttavia entrambe le fazioni hanno assorbito il suo insegnamento più di quanto credono, dato che questo consiste non tanto in una lotta contro l’inessenziale, quanto in un’ortopedia operata sulle cose, su se stessi e sugli altri.
Tra i progettisti grafici italiani attivi durante il secolo scorso, A G Fronzoni è colui che più radicalmente ha tenuto fede alla missione moderna: quella di innalzare la progettualità a principio di vita fondamentale. Attraverso un’attività che può essere considerata una lunga serie di esercizi, Fronzoni ha inquadrato lucidamente l’analogia tra design e pratica ascetica, ovvero tra progetto delle cose e progetto del sé, offrendo un esempio da imitare a generazioni di designer. È forse questa la vera ragione del culto particolare che avvolge la sua vita e il suo lavoro, un culto che va oltre l’intensità e la coerenza di un’opera talvolta in contrasto con i rigidi precetti del modernismo. In questa sede mi ripropongo di indagare, purtroppo soltanto tramite fonti secondarie, la dimensione ascetica presente nel lavoro del progettatore Fronzoni (come amava definirsi) soffermandomi sul rapporto tra progetto delle cose, progetto del sé e progetto degli altri.
Il progetto delle cose
Durante una carriera che si è svolta principalmente a Milano, Fronzoni si è distinto per una vasta produzione di marchi, riviste, allestimenti e oggetti, tra cui l’iconica serie ’64 in tubolare metallico. Il culmine della sua opera lo troviamo però nei manifesti – cinquanta dei quali popolano la collezione permanente del Museum of Modern Art di New York – e nell’esercizio della didattica, che ha avuto luogo dapprima presso la Scuola Umanitaria di Milano, dunque all’ISA di Monza, poi all’ISIA di Urbino e all’Istituto di Comunicazione Visiva di Milano, e infine nella scuola-bottega da lui stesso fondata nel 1982 in via Solferino a Milano. A proposito dei suoi poster Fronzoni afferma:
«Per progettare un manifesto bisogna partire dall’architettura e, ad essa, tornare». Il manifesto è dunque spazio, abitato da alcuni elementi (generalmente pochi) in relazione tra loro, e struttura, come dimostrano le fustellature e le appendici cartacee che ne costituiscono alcuni. Come mi fa notare il ricercatore Michele Galluzzo, Fronzoni ha visto l’emergere di nuove tecniche di stampa e di disegno, così come ha vissuto la diffusione pervasiva della pubblicità accompagnata dalla crescente egemonia della televisione. Sebbene si sia interessato a questi sviluppi e ne abbia tratto degli esperimenti, Fronzoni non se n’è lasciato sostanzialmente distrarre e in tal senso la sua opera appare come la dichiarazione di universalità di una pratica senza tempo.
Non sembra però sufficiente limitarsi a questi aspetti formali. Avanziamo dunque l’ipotesi per cui il manifesto abbia una duplice funzione. In primo luogo è la palestra entro cui il progettista si allena, cimentandosi nella sua lotta contro l’inessenziale, che in quanto spreco è immorale, osceno. In secondo luogo il manifesto è strumento di riforma del mondo, o meglio di purificazione, difatti i poster perlopiù vuoti e acromi di Fronzoni vanno a coprire, e dunque emendare, pezzi di mondo. Dato che ormai questi poster abitano soltanto gli ambienti asettici della galleria o del catalogo, non è facile legittimare la nostra ipotesi. Una piccola conferma ci è però data dal manifesto per la mostra di Fontana alla Galleria La Polena di Genova. Fronzoni omaggia il celebre taglio dell’artista che fa della tela una superficie da varcare producendo così un oltremondo. Ci viene inoltre in aiuto una fotografia del 1979 che mostra i manifesti affissi su un muro di Genova, semilacerati: forme geometriche fluttuanti su uno sfondo nero sembrano appartenere a una dimensione platonica che si rivela attraverso uno squarcio. Sono le logiche geometrie del manifesto a coprire il disordine del mondo o viceversa è il caos delle cose che impedisce all’ordine nascosto di emergere? Un gioco di profondità palesa un orientamento verticale: ricoprire vuol dire al tempo stesso disvelare. È Fronzoni stesso, in uno dei suoi rari scritti, a parlare a proposito del bianco e nero, di «nuove e insospettate realtà» che ricordano i misteri celesti del cielo notturno.
Al Fronzoni grafico viene spesso rivolta un’osservazione critica, quella di aver privilegiato una committenza culturale “illuminata” a scapito di un mercato “reale”, perlomeno per quel che riguarda la sua attività riprodotta nelle mostre e nelle monografie. Sarebbe riuscito Fronzoni a preservare il suo rigore formale se avesse allargato la sua clientela? – domandano i critici. Ammesso che si tratti di una critica fondata, essa confermerebbe la vocazione ascetica dei manifesti di AG, che non solo mettono in scena una separazione dal caos, ma esaltano ciò che è cultura, e in quanto tale valore sì da diffondere, ma anche da preservare. In questo senso l’attività di Fronzoni è secessionista: i suoi manifesti inscrivono un mondo nel mondo, quest’ultimo in qualche misura separato dal primo. Fronzoni aspirava a «fare pubblicità alla cultura», e questo è lo scopo dei manifesti di Genova. Ma di che cultura si tratta? I manifesti danno forma a una cultura fatta per essere contemplata e assorbita ma non certo manipolata o abitata. La cultura di Fronzoni è la misura di una distanza. Certo, «la cultura va portata laddove non c’è, in periferia, tra i più deboli» ai quali spetta però solo il compito di abbeverarsene. Ma d’altronde cos’è la cultura se non un codice per iniziati, un linguaggio esoterico? Le forme pure di Fronzoni sono il simbolo della cultura posseduta da chi è in grado di leggere, e della cultura che manca per chi non è in grado di capire. In fondo Fronzoni sapeva meglio di chiunque altro che il vuoto vale quanto o forse più del pieno.
Nonostante ciò, il grafico incitava spesso i suoi allievi a farsi ingaggiare da zii o amici per progettare un logo o un’insegna, li spronava insomma a sporcarsi le mani. Qui vediamo come progetto delle cose e progetto degli altri si intrecciano. Il fine dell’opera fronzoniana è fondamentalmente educativo: si educa il committente, si educa il pubblico, si educa se stessi. Le cose progettate e il contesto di tale progettazione sono il canale, il medium di questo impresa educativa. Le cose insegnano la coerenza che le caratterizza. Come sostiene Hannah Arendt, la sfera pubblica è costituita da cose progettate che al tempo stesso uniscono e separano. I manifesti di Fronzoni sono un esempio di questa unione e divisione simultanea: attraverso il manifesto, l’utente si unisce al committente, ma è sempre il manifesto che li costituisce come entità separate e asimmetriche. Si tratta di un’asimmetria verticale: nonostante la volontà inclusiva presente nell’opera di Fronzoni, la cosa progettata trasuda immutabilità e perciò autorità. I suoi poster per le lotte operaie non accolgono le istanze degli operai se non attraverso il filtro dell’occhio competente del progettista. Se di minimalismo si tratta, quello di Fronzoni è un minimalismo pedagogico.
Il progetto del sé
Celando il suo nome di battesimo (Angiolo Giuseppe) dietro un acronimo, il grafico dichiara: «io sono solo un marchio, mi chiamo A. G. Fronzoni» (successivamente scompariranno anche i punti). Durante la sua attività di redattore e designer per Casabella, fa lo stesso con i suoi colleghi A. Mendini e G. Celant perché «nella grafica non non c’è spazio per diminutivi, per messaggi sentimentali.» Ed è proprio Mendini, che si è poi distinto per la sua verve progettuale sacrilega e irriverente, a riportare l’episodio e tratteggiare un Fronzoni appassionatamente coinvolto nella sua personalissima lotta del bene contro il male. Una visione olistica dal forte potere seduttivo, questa, alla quale Mendini, come molti altri allievi di Fronzoni, non è stato immune. Fronzoni è definito di volta in volta ortodosso, francescano e addirittura calvinista, ma ciò non impedisce a Mendini di chiamarlo illuminista. La contraddizione tra questi appellativi è soltanto apparente: quando si fa della razionalità un dogma, attorno a essa si può sviluppare un culto dal carattere talvolta più intransigente di quello delle religioni tradizionali. A questo proposito il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, sostenitore della tesi radicale secondo cui le religioni non sono altro che sistemi di esercizi, nota che il progresso può essere considerato una specie di conversione morbida, non radicale, «una metanoia a metà prezzo» su larga scala, che diventa a volte addirittura gratuita. Fronzoni però non si è mai contentato di un facile ottimismo tecno-umanistico, ed è per questo che la sua condotta è ascetica in senso tradizionale: separatista, distante dalle cose del mondo eppure immersa in esso; «ascesi inframondana» la chiamava Max Weber, ovvero «un’esistenza nel mondo ma non di questo mondo o per questo mondo».
A G era dunque credente: oltre a una salda fede nel progresso, le sue affermazioni lasciano ritenere che non fosse privo di un credo trascendente («quando l’uomo crea si avvicina molto a Dio»). Il suo amore per l’essenzialità sembra coincidere con una frugalità di stampo francescano (Massimo Curzi lo definisce «pauperista di natura»). Una frugalità che va a coinvolgere lo stile di vita di Fronzoni, il quale rifuggiva i beni materiali e detestava la proprietà privata, che trovava il massimo dell’eleganza nell’abito di suore, preti e frati, che con la sua divisa nera sembra voler scomparire, negarsi in quanto individuo. Quella che nei suoi progetti è una riforma del mondo non è altro che un riflesso della riforma del sé: una battaglia su due fronti.
Ciò che ci resta del pensiero di Fronzoni sono principalmente apoftegmi tramandati oralmente. Gli scritti sono pochi, uno dei quali volto a castigare la vanità di chi scrive. Intitolato “Che vergogna scrivere”, consiste in un testo indecifrabile, che ancora una volta pone l’accento sulla sua forma piuttosto che sul suo contenuto. Ieratico, A G afferma che «il progetto più grosso è il progetto di noi medesimi», che «i progettatori di noi stessi siamo noi stessi, noi lavoriamo per noi». In fondo non vi è differenza tra vivere e progettare, perché «il progetto è un modo di essere, un modo di porsi nei confronti della vita e della società […]». Nel libro A lezione con A G Fronzoni di Ester Manitto, che è l’omaggio di un’allieva al suo maestro di progetto e di vita, troviamo uno schizzo a lei dedicato. Si tratta di uno schema che sintetizza la condotta del designer pistoiese. In basso, troviamo la dimensione orizzontale del lavoro e della fatica («lavoro (sgobbando) tutti i giorni 8 ore al giorno») e da questa base si innalza una verticale che punta all’altissimo obiettivo finale: la qualità. «Tu sarai sola (sempre)»: la via verticale va percorsa in solitudine, ammonisce Fronzoni.
Il progetto degli altri
A proposito di Fronzoni, Claudio Silvestrin, architetto e designer noto in tutto il mondo per il suo linguaggio semplice e austero, lamenta la scomparsa del mestiere di maestro. Ma di che tipo di maestro parliamo in questo caso? A G subiva certamente il fascino della bottega rinascimentale, dove si impara facendo, e in cui il maestro è innanzitutto mastro. Non si stancava infatti di ripetere il motto learning by doing, coniato da John Dewey e fatto proprio da Josef Albers nell’ambito del Bauhaus. È chiaro però che i suoi insegnamenti non si limitavano alla tecnica, andando ad abbracciare la politica e l’etica, attraverso la critica del consumo e l’elogio della cultura. Come ricorda Florencia Costa su Domus, il fulcro della sua didattica consisteva in un allenamento del pensiero, una serie di istruzioni sull’essere umano.
Ha ragione Silvestrin a dire che di maestri non ce ne sono più. Ma, dato che c’è ancora chi ha voglia di svolgere questa funzione e non manca chi ne sente il bisogno, a cosa si deve la loro scomparsa? La figura del maestro presuppone una visione delle cose limpida, definita. Il maestro detiene l’ordine. Il manicheismo di Fronzoni è certamente rassicurante, ed è per questo che fa tuttora presa sulle nuove generazioni di progettisti. Purtroppo però il culto di Fronzoni non è privo di nostalgia, e ciò lo rende malinconico. Il cenobio in cui mettere in pratica la regula di Fronzoni, già traballante quando questi era ancora in vita, ha fatto largo al deserto del relativismo e alla vertigine della complessità e dell’ironia. Abbiamo sviluppato degli anticorpi ironici che ci immunizzano dai grandi propositi e dalle grandi speranze, che ormai percepiamo come polaroid sbiadite del boom economico e post-boom (dopotutto Fronzoni è stato attivo durante gli anni 70 80 e 90, quando questo sistema immunitario si costituiva). A proteggere i fiduciosi aforismi di Fronzoni, come quelli di un Munari o di uno Steiner, ci pensa la buccia d’arancia della storia. Come risuonano le parole di Fronzoni oggi? Si può ascoltare senza tradire un sorriso condiscendente che «progettare è voce del verbo amare» (titolo di una mostra del maestro)? Oggi la sincerità di Fronzoni, prodotto di una rigorosa frugalità concettuale, spaventa e perciò si riveste di livelli, di interpretazioni, di ricollocazioni, di riappropriazioni.
Ci si imbatte spesso in una citazione di Fronzoni, di provenienza alquanto dubbia, secondo cui la sua ambizione non sarebbe stata quella di progettare manifesti, bensì di «progettare uomini». Sorprendentemente nessuno si scandalizza, forse perché tale affermazione è protetta dalla rassicurante patina di un passato glorioso. L’oscenità sta nel fatto che, in un contesto laico che pone la libertà come valore assoluto, nessuno vuole essere progettato, nemmeno dal più puro dei maestri. E chi sarebbe presuntuoso a tal punto da cimentarsi nella progettazione di esseri umani? Non si fa fatica a sentire l’eco della retorica sovietica attorno all’Uomo Nuovo.
A farci dubitare dell’attendibilità della citazione sono in primo luogo le simpatie anarchiche di Fronzoni, per cui l’autonomia è necessaria e costitutiva di un uomo degno di tale nome. In secondo luogo, l’idea di progettare uomini cozza con il più frequente e documentato riferimento allo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, secondo cui «chi ricusa di progettare accetta di essere progettato». Eppure è proprio qui, nella tensione tra l’idea del discepolo progettato dal maestro e l’autonomia del discepolo solitario che si innesca un circolo vizioso. Il maestro-allenatore spinge a progettare la propria vita, affinché questa non sia progettata da altri; ma si tratta dello stesso maestro-allenatore provvisto di un progetto di vita da offrire al discepolo. Fronzoni incarna l’autorità che pur progettando la tua vita, ti libera, perché fa di te un progettatore.
Oggigiorno è facile ritrovare l’ambivalenza tra progettare e essere progettati nella vita quotidiana, dove si scopre che le due attività non si escludono a vicenda. La pubblicità, ad esempio, ci intima di progettare i nostri consumi e attraverso di essi la nostra personalità. Così facendo riprogetta il nostro rapporto intimo con le merci e con noi stessi. La propaganda, quando non ci manipola apertamente, fa di noi degli attori disorientati. E che dire della scuola? Tramite la scuola, lo stato progetta cittadini fungibili che devono amministrare attivamente il loro progetto di vita. In tal senso, tutte le scuole sono scuole di design. Tuttavia, le scuole di design in senso stretto generano un surplus di progettualità negli allievi, che riconsiderano o addirittura negano la propria funzione sociale. Càpita che la lezione della progettualità radicale venga accolta fin troppo bene, e si rifiuti così la vera e propria griglia concettuale entro la quale avviene l’insegnamento: si confuta l’idea stessa che l’autonomia passi per la progettualità. Altre pratiche, metodi e modalità si innescano, più vicine al continuum del diario che alla suddivisione discreta del progetto, che si configura come necessità storica di un mercato del lavoro sempre più frammentato. Gli studenti, quelli più accorti o sprovveduti a seconda dei punti di vista, ricusano il progetto, appunto per non farsi progettare. Può dunque esistere una progettualità pura, autonoma, riflessiva? Che sia indipendente dalle progettualità socialmente imposte? Se qualcosa del genere esiste, la ritroviamo nell’ascetismo radicale dei cenobiti, degli anacoreti, degli stiliti. Per tutti gli altri c’è solo progettualità promiscua, distribuita, sociale. Ci si progetta mentre si viene progettati.
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