Un trentenne precario si ammazza lasciando alle spalle una lettera aperta. Per quel che ne so potrebbe addirittura essere falsa, ma la rabbia e la disillusione che essa esprime fanno indubbiamente parte della realtà collettiva. Può una lettera anonima, magari addirittura falsa, diventare un manifesto generazionale? Perchè no? Non viviamo in ogni caso di fiction e di astrazioni come la carriera, il “personal brand”, il debito? La lettera può pure essere falsa, ciò non toglie che sia comunque reale.
Il tono è drammatico, senza speranza. Tuttavia i commenti dei miei coetanei risultano ancor più desolanti. Quelli che si scusano per il proprio cinismo si sbagliano. Ciò che orienta il senso comune non è il cinismo, bensì una forma di darwinismo sociale denso di paternalismo. Una prospettiva del genere può soltanto inquadrare un lucido –seppur disperato– atto di protesta nella categoria del disturbo mentale. Tale interpretazione è a dir poco necessaria poiché se si dovesse ammettere che non si tratta di un gesto folle, ci si troverebbe costretti ad accettare il fatto che a essere folle è il sistema di valori dominante.
“Pensava che tutto gli fosse dovuto.” Questa la sintesi di quelli che considerano il precario un individuo arrogante, “entitled”, come si dice nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Che si aspettava? Che gli avrebbero offerto un posto di lavoro senza battere ciglio? Chi si credeva di essere? Chi ragiona così generalmente non dimentica di sottolineare che si è fatto il culo per arrivare dov’è arrivato, magari lavorando dodici ore al giorno tutti i giorni. Beh, non tutti hanno voglia di seguire questa dieta, non tutti amano il proprio lavoro al punto da considerarlo indistinguibile dalla propria vita. E ne hanno pieno diritto. Direi al contrario che è quasi un dovere quello di opporsi all’obesità lavorativa dominante.
Detto ciò, non ci vuole molto a capire che quella dell’impegno e del merito è una truffa, al massimo una lotteria. L’attuale tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40%. Quasi un ragazzo su due non lavora. In tale contesto, il lavoro, specialmente quello terziario, non è una più tanto una questione di specifici meriti quanto di privilegio acquisito (casa di proprietà, rendita, prestigio familiare, ecc), fortuna e di lobbying. Mi sembra legittima la volontà di sottrarsi a questo stato di cose. Al contrario, quelli che “ce la fanno” tendono odiosamente a convincersi che il loro successo sia soltanto il frutto delle loro fatiche, e che tutti gli altri siano dei perdigiorno senza cervello o spina dorsale.
Leggo su facebook che “il problema è pretendere che la società ci riservi felicità, soddisfazione, amore e riconoscimenti solo per diritto di nascita.” Che altro pretendere allora? D’altra parte il diritto al lavoro, come quello alla casa o all’istruzione, dovrebbero essere effettivamente garantiti dallo Stato. E noi altri, invece di immaginare nuove forme di diritto, corriamo al ribasso, rinunciando volontariamente a ciò che ci spetta giustamente per il solo fatto di esistere. Nella sua lettera, il suicida ne prende atto quando afferma che presto “non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente”. E così sentenzia: “il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare.”
“Poteva fare un altro mestiere.” Il lavoratore precario faceva o voleva fare il grafico. Che idea! Doveva accontentarsi, valutare altre professioni. Magari produrre un prospetto dei possibili guadagni a fronte delle fluttuazioni dei mercati. Ecco come pian piano prendiamo le parti di un centro d’impiego o di un istituto finanziario replicandone l’atteggiamento paternalistico. Come se non ce ne fossero già abbastanza.
“Aveva velleità artistiche, voleva fare il creativo,” Non posso fare a meno di pensare alle innumerevoli scuole di design, di architettura o di giornalismo, dove ci si prepara alacremente per anni a una professione riservata a un élite. Come si fa a biasimare il rifiuto di scendere a compromessi? Magari dopo una decade di studi? Il precario ha ragione quando sostiene di sentirsi tradito “da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.”
“Era solo.” Specialmente nel campo delle industrie creative, mi pare che ci si circondi di colleghi che sono al tempo stesso amici. Di cosa lamentarsi se non degli abusi dei propri capi? Che cosa condividere, se non le dritte finanziare su come gestire la partita Iva? Su cosa costruire un senso di solidarietà, se non sul comune j’accuse verso una committenza poco illuminata? Il lavoro stesso isola, ma la sua assenza isola ancora di più.
“Era chiaramente un tipo antisociale, difatti non riusciva nemmeno a trovare una fidanzata.” Non ci vuole un grosso sforzo di immaginazione per rendersi conto che il reddito, e di conseguenza il lavoro, esercitano una forte influenza sulla possibilità di avere una relazione sentimentale o quella di farsi una famiglia. Non è tanto una questione di interesse quanto di stigmatizzazione.
“Era disturbato” Questa diagnosi ci rincuora tutti, perché fa sì che il gesto del precario non ci riguardi. Leggere la sua lettera attraverso la lente medica ci permette di allontanare il pensiero che un gesto del genere sia socialmente ammissibile. Che abbia un grado di legittimità. Perché ciò ci spaventerebbe troppo.
È tempo di rendersi conto che il grado di disperazione espresso dal lavoratore precario possa rientrare nei parametri dell’attuale normalità. Una normalità che non è altro che una forma di emergenza diffusa. Bisogna prendere quantomeno in considerazione l’ipotesi che il suicidio, come la depressione, possa essere un fatto sociale e non puramente individuale. È necessario venire a patti col fatto che questa sorta di precariato esistenziale, per quanto venga celato o addirittura negato, rappresenta il minimo comune denominatore di una generazione. Una generazione che ha “fatto del malessere un’arte”.
Il fatto è che il suicidio è la prima causa di morte tra gli adolescenti di tutto il mondo, tutto, ricco e povero, ed è la conseguenza di una condizione patologica di disagio psichiatrico.
Non si spiega con la perdita del lavoro, non si salvano i suicidi facendoli lavorare.
Anzi, la maggior parte di loro apparentemente non ha nulla e lavora o va a scuola.
Le lettere che lasciano poi sono solo l’ultimo sfogo di una persona che in primis non è stata ascoltata da chi aveva intorno, non dalla società.
Insomma, nei casi di suicidio il primo posto da guardare è la famiglia, non cosa ha detto o fatto quello o quell’altro ministro.
Si finisce per essere convinti di poter risolvere il suicidio.
> L’attuale tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40%. Quasi un ragazzo su due non lavora.
Anche questa è una semplificazione fuorviante, bisogna capire come esce fuori quel dato e non semplicemente prenderlo come buono.
Intanto quel dato è relativo solo al sud Italia, secondo poi tiene in considerazione solo coloro i quali sono nella fascia 15-24 ma che non sono impegnati a studiare, il dato quindi sul totale dei giovani è al di sotto del 25%.
Ma dire il 40% fa molto più tragedia e la tragedia fa molta più audience.
Non si scherza con le cose serie, se non si sa di cosa si parla, meglio non parlare e mandare un semplice condoglianze alla famiglia della povera vittima.
> [Il suicidio] non si spiega con la perdita del lavoro, non si salvano i suicidi facendoli lavorare.
Il lavoro non salverà dal suicidio ma si può sicuramente affermare che il lavoro in alcuni casi lo provoca. Basta dare uno sguardo alla storia recente, considerando ad esempio il caso dei 18 operai Foxconn che hanno tentato collettivamente il suicidio nel 2010, riuscendoci in 14. Pare che la risposta immediata dell’azienda sia stata quella di consultare un team di psicologi, i quali hanno tranquillamente concluso che si trattava di soggetti caratterialmente fragili. La Cina è troppo lontana? Si veda allora il caso France Telecom.
> Ma dire il 40% fa molto più tragedia e la tragedia fa molta più audience.
Sacrosanta contestualizzazione del dato. Benché mi pareva scontato che i giovani presi in esame non fossero studenti. Dato che mi pare utile accompagnare a quello relativo alla crescita degli occupati tra gli over 50, o al 17% dei disoccupati laureati tra i 25 e i 34 anni.
> Non si scherza con le cose serie, se non si sa di cosa si parla, meglio non parlare e mandare un semplice condoglianze alla famiglia della povera vittima.
Dato che è questo il caso, il mio invito è quello di rivolgersi direttamente ai familiari per spiegare che loro figlio “non sapeva di cosa parlava” e che “nei casi di suicidio il primo posto da guardare è la famiglia”.